Linea e momenti della poesia leopardiana (1935)

W. Binni, Linea e momenti della poesia leopardiana, in Aa. Vv., Sviluppi delle celebrazioni marchigiane: uomini insigni del maceratese, Macerata, Affede, 1935, pp. 77-97, poi raccolto, dal 1984 (Appendice II), in W. Binni, La nuova poetica leopardiana, Firenze, Sansoni, 1947, 19978.

LINEA E MOMENTI DELLA POESIA LEOPARDIANA

La poesia del Leopardi presenta un valore di attualità che la fa sembrare molto piú moderna di quella del Carducci, del Pascoli, del D’Annunzio: ciò è dovuto alla posizione, del grande recanatese, di ultimo rappresentante della tradizione classica italiana e, soprattutto, all’indole della nostra poesia contemporanea.

Quasi pare, a momenti, che parlare di Leopardi equivalga a parlare di lirica, in assoluto.

Crediamo però che la sensibilità di quelli che potremmo chiamare i classicisti romantici della lirica attuale abbia fatto loro afferrare della poesia leopardiana solo quello che sentivano omogeneo alla propria poetica: il potere evocativo della parola, lo sviluppo dei temi mediante la suggestione di sensazioni romite, e tutta una magica trasformazione in musica di ansie d’infinito, di conclusioni di vita sofferta. Piuttosto che vedere se questa sia o no un’appropriazione indebita, importa a noi, per i fini del nostro studio, osservare preliminarmente che in tal modo vanno perduti i valori piú profondamente morali del poeta che fan tutt’uno con la sua forma, il suo piglio altissimo che invera una tensione di morale eroica, accentuata soprattutto nel Leopardi dei nuovi canti (dal Pensiero dominante in poi): i meno conosciuti ed apprezzati generalmente di tutta la poesia leopardiana.

Si è cosí a lungo insistito sul dolore, sul pessimismo, sulle sventure fisiche e morali del Leopardi che ci sembra proprio un omaggio alla sua immensa altezza spirituale mettere in penombra tutto ciò che non è se non elemento contenutistico, rozzo materiale di vita schematizzata o romanzata e volgersi direttamente alla sua essenziale personalità, alla sua forma nel senso piú pieno ed umano della parola. Forma, personalità pura da ogni empirica contingenza che è tutt’uno con la forma intesa in stretto senso poetico.

In un esame critico fatto sub specie aeternitatis, diretto a separare poesia da non poesia, forma da alone concettuale, sembrerebbe di dovere attaccare senz’altro il Leopardi nel realizzato, nel suo mondo poetico perfetto, definito, nella parola che il poeta ha, pronunziandola, staccata da sé.

E difatti si potrebbe, come si fa di solito, discorrere in assoluto di un certo modo leopardiano di entrare nel sogno, di una continua onda di musica che permea e trasvalora, senza ucciderli, i sentimenti piú colorati di tragedia e di autobiografia; si potrebbe parlare di una mancanza di sensualità plastica, sostituita invece da una tendenza a collocare le sfumature in aggettivi assoluti (gli «occhi ridenti e fuggitivi» di Silvia), in silenzi interiori, avvertibili nella assorta religiosità delle riprese («Ma sedendo e mirando»). Ma ci troveremo ad aver parlato solamente di una parte della poesia leopardiana, e dovremo o fare del tono idillico lo stato ideale, il vero motivo di tutta questa poesia e dell’anima leopardiana, o, se avremo compreso la sua complessità, ricercare una diversa e piú comprensiva soluzione.

Ci sarà successo come a chi, nello studio della poesia hölderliniana, la avesse fatta consistere totalmente nel tono eroico-idillico dell’Hyperion e si trovasse cosí escluso dalla grande poesia delle ultime composizioni.

Già il De Sanctis, che pure aveva esaminato la poesia del Petrarca secondo i motivi lirici, tenendo la vicenda biografica completamente ai margini del lavoro, nel suo studio sul Leopardi si mantenne – e non per ragioni di comodità o pigrizia critica – su di una linea di svolgimento e di formazione senza lasciare perciò appesantire la propria vigilanza critica dalla speciosità del parallelo deterministico di vita ed arte.

Solo tenendo un intelligente conto della cronologia, della storia, si può, secondo noi, ottenere un risultato effettivo, un chiarimento sostanziale nello studio della poesia leopardiana: sembreranno risultati parziali, disgregazione dell’unità poetica, ma in fondo ci si accorgerà che solo in questo modo si può evitare la prevalenza di un motivo sull’altro o l’assunzione di un motivo particolare a motivo unico di tutto il mondo leopardiano.

E non sarà un indulgere alla storia, alla cronologia per quello che esse hanno di materiale, di naturalistico, ma un servirsene in quanto vivano come simboli di uno sviluppo spirituale, in quanto in esse, come da un punto di vista che sarebbe assurdo negare, si fissano i momenti di una attività artistica.

Il modo migliore per entrare nella linea di questo sviluppo ideale della poesia leopardiana, per sentirlo drammaticamente e non nel movimento naturalistico di un accrescimento organico, è senza dubbio tentare di avvicinarsi al nucleo del poeta, di individuare la sua tendenza spirituale, di fissare il suo strato intimo da cui fiorisce la sua esigenza poetica. E troveremo che al di là di ogni sovrastruttura culturale, di ogni limite di bruto temperamento, di ogni cristallizzata sintesi di vivente e di vita vissuta, c’è nel Leopardi un nucleo che possiamo dire di sostanziale romanticismo.

L’affermazione sembrerà riportare a sorpassate esigenze della critica precrociana, mentre in effetto costituisce una nuova posizione che si dimostrerà feconda di risultati concreti durante lo svolgimento di questo saggio. Per ora l’affermazione di un Leopardi romantico è posta su di un terreno psicologico o meglio, dato che la psicologia pare ormai comprendere piuttosto i moti del temperamento, i torbidi domini di una sorta di perispirito, su di un terreno largamente spirituale, ma poi se ne trarrà partito proprio in sede estetica.

Che il Leopardi sia fondamentalmente romantico (inteso romanticismo non nel suo senso deteriore di squilibrio, ma anzi in quel senso di aspirazione all’assoluto incondizionato, alla legge intima, all’affermazione della personalità come necessaria ed universalizzantesi, che lo fa spiritualmente importantissimo) ce lo rivela ogni suo atteggiamento di spirito non accomodante, disperatamente bisognoso di assoluto, sí da non trovare intorno a sé che relativo, che materiale; atteggiamento di un uomo fondamentalmente inquieto e riportante sempre in un grado piú alto e comprensivo la propria positiva, feconda scontentezza per la quale i fatti esterni non sono che una riprova dell’insufficienza della realtà: onde la teoria delle dolci illusioni, lo scampo parziale e di ripiego nelle età eroiche ecc. E quindi una infelicità (se proprio si vuole adoperare questa parola che l’uso borghese ha fatto triviale e melodrammatica) essenziale, non dipendente da cause esterne, dalle vicende, dai mali in modo deterministico (e questo è bene, per omaggio al Leopardi e alla centralità dello spirito, ripeterlo a chiare note fino ad aprire le orecchie di chi lacrima sulla gobba del grande e non ne intende l’intima forza formale e la virile affermazione di vita), una infelicità attiva, un pessimismo – come giustamente osservò il De Sanctis nel suo bellissimo dialogo su Leopardi e Schopenhauer – positivo, carico di idealità. Insomma una posizione quale la possiamo trovare ben altrimenti chiarita e sviluppata speculativamente nell’idealismo romantico, al cui contatto ci siamo domandati tante volte come il Leopardi avrebbe reagito.

Dando cosí al romanticismo un senso positivo e liberandolo da tutte le ipertrofie di sfogo e di squilibrio alla Werner, possiamo affermare che il Nostro fu proprio spiritualmente un romantico e forse il piú grande, per la sua compattezza ed aderenza espressiva, di tutti i poeti romantici.

Ed è questa sua peculiare qualità che ci condurrà a stabilire la novità della poesia dei nuovi canti ed insieme il suo legame con quella idillica. Assisteremo infatti ad un progressivo romanticizzamento sempre meno apparente e sempre piú sostanziale, che per noi culmina appunto nel tono evangelico personale, nelle forme ampie, slanciate della Ginestra.

Parallelamente a questo romanticizzarsi che è poi niente altro che il cammino verso la maturità, verso l’acquisto della propria intera anima, circolano come motivi unificatori, un successivo liberarsi dal temperamento piú immediato prima e poi dalla cultura, e soprattutto un tentativo romanticissimo di unificare in una sola espressione personale le proprie aspirazioni speculative con il mondo della poesia: basti ricordare come comprova storica e marginale, che anche altri poeti romantici, ad esempio il Vigny, mirarono a questo tipo di espressione di alti bisogni filosofici e morali.

Sono tutti questi fili che, intesi largamente, non astrattamente ipostatizzandoli, offrono la guida migliore per un esame complessivo, non alessandrino né d’altra parte caotico, della poesia leopardiana.

La prima attività artistica del Leopardi si distingue per il carattere di disordinata e febbrile ricerca di uno sfogo ad un’intima irrequietezza, ad un bisogno di entrare nella vita letteraria, di campeggiarvi, di far trionfare la propria persona piú terrestre: è quindi un momento poco puro, fortemente sensuale (intendendo per sensualità quella generale avidità, quel punto di vista edonistico sotto cui ogni cosa è veduta come potenziamento del proprio io empirico), interessata, asservita ai motivi estranei della gloria e della felicità.

I primi tentativi hanno cosí uno scarso valore formale e vivono in funzione di esperienze che il poeta attinge e supera rapidamente nel suo massimo di calore, di entusiasmo pratico. Perciò pensiamo che anche le due canzoni patriottiche, che rappresentano d’altra parte già qualcosa di piú formato e d’atteggiato secondo una linea distinta, non abbiano essenzialmente che valore di tentativo e di sfogo, tanto che ci pare di rendere un cattivo servizio al Leopardi servirsene per parlare del suo patriottismo che si può invece trovare molto piú sicuro e virile, sebbene funzionale in accordo alla visione sociale della Ginestra, in molte parti dei Paralipomeni.

È il periodo della retorica e cioè non della finzione, della insincerità, ma della espressione non sentita poeticamente, coerentemente al carattere della poesia: retorica sia che prevalga la cultura, sia che prevalga il temperamento. Nel primo caso il risultato è retorica classicista, saldata alla tradizione montiana e quindi piú scaltra, ma piú ingannata dalle forme offerte e sommariamente rivissute, nel secondo si sviluppa una retorica romanticheggiante i cui eccessi di crudezza realistica (certi punti della canzone Per donna uccisa col suo portato) hanno lo stesso valore spirituale di sfogo e di accaparramento della realtà che hanno le tirate di eloquenza classicista.

A poco a poco, mentre l’esigenza culturale si rafforza in senso speculativo come ricerca, non metodica, ma immediata della verità sotto la guida degli illuministi francesi ed inglesi (una cultura arretrata insomma rispetto alle tendenze spiritualiste ed idealiste del primo Ottocento) e provoca l’attività frammentistica dello Zibaldone, dal quale è impresa assurda voler ricavare un sistema organico e a cui non si deve chiedere piú che un preannuncio della trasformazione di tali elementi speculativi nell’arte delle Operette morali e note biografiche di altissimo valore umano; l’originalità nucleare del poeta, affacciandosi chiaramente per la prima volta, produce uno iato tra cultura e poesia che si osserva evidentissimo nei primi idillii.

In questi ci si trova di fronte ad uno slargamento improvviso, ad una prima realizzazione della fantasia leopardiana oltre i limiti del temperamento e della letteratura. Si ha qui, nell’Infinito, un primo tentativo di sottomissione dei problemi metafisici del poeta ad una sensazione dominante (e una certa rigidezza di sogno spietato e lucidissimo permane pure nel serenamento di quell’idillio) e, nella Sera del dí di festa, una prima riduzione del dramma individuale, dell’autobiografia dolorosa nel circolo conclusivo e purificatore dell’idillio.

Vero è che già nei primi idilli deteriori (Il sogno, La vita solitaria) si perde la linea che aveva permesso di ritagliare, nel complesso e confuso agitarsi del mondo giovanile leopardiano, la calma bellezza dei due idilli. Ma è soprattutto poi, nelle canzoni seguenti all’Ad Angelo Mai (tutti questi «poi», queste successioni cronologiche vanno prese molto latamente, senza irrigidirle in una catena di esatte e definite sezioni) che il poeta cerca volutamente di colmare lo iato tra cultura e poesia, che solo in un momento di stato di grazia aveva potuto felicemente attuare, portando decisamente la poesia nel mondo della cultura, della storia.

Se l’indole artistica del Leopardi fosse stata fiacca, superficiale, avrebbe trovato ivi la propria misura e si sarebbe adagiata in questo tipo di costruzione di miti storici, culturali che limitassero agevolmente il suo campo di creazione.

Quest’equilibrio di costruzione e di esigenze extraestetiche poteva essere la mortificazione della forma. Invece il nucleo originale del poeta regge la prova della cultura e della costruzione storica e ne esce anzi invigorito, addestrato a piú ampi respiri. Perciò le canzoni culturali, poeticamente limitate e fuori della perfetta realizzazione lirica leopardiana, hanno un valore funzionale importantissimo rispetto alle creazioni successive.

Nello stesso Zibaldone, che rappresenta lo sforzo speculativo (sempre in un senso piuttosto culturale) piú disordinato ed extra-artistico del Leopardi, il nucleo originale, che abbiamo detto fondamentalmente romantico, scuote sempre piú il classicismo di cultura fino a renderlo una morta scoria, e il poeta, dopo la distruzione degli assoluti vuoti e metafisici, prova una nuova sete di concretezza ideale. È proprio questo il valore positivo dello Zibaldone nel ritmo dello sviluppo leopardiano verso la conquista della propria personalità artistica ed umana: una critica particolare e disperatamente lucida degli assoluti (bello, vero, buono) sotto la guida dell’illuminismo demolitore, una critica che chiede poi, in un romantico del taglio del Leopardi, la posizione di un nuovo assoluto non relativo, non confutabile, al sicuro da ogni esame di tipo scientifico. E, ripetiamo, non era questa, mutatis mutandis, la posizione iniziale dei romantici idealisti?

A questo punto, scontento certamente della sua attività frammentistica speculativa, soprattutto scontento delle canzoni culturali in cui non era riuscito a concretare il proprio ideale di espressione unitaria, «personale», il Leopardi sentí il bisogno di proiettare le proprie teorie filosofiche, o meglio, i risultati della sua critica, nell’arte, di esprimerli organicamente in un mondo nuovo, nel mondo della triste realtà, dell’essere superato, senza speranza, dall’anelito al dover essere.

Fu quasi un momento di sfiducia nelle possibilità della poesia e il bisogno di un lirismo piú aderente al proprio mondo interiore; e fu anche l’abbandono di una tradizione prevalentemente retorica per una piú realistica (prima di comporre le Operette si fissò moltissimo sul Machiavelli).

Nacque cosí il mondo delle Operette morali, unica espressione di un lungo periodo durante il quale i Canti tacquero. Noi però (e crediamo di offrire uno spunto per una nuova valutazione delle Operette) consideriamo questo periodo di prosa non come una parentesi, ma come un nodo vitalissimo nella storia della poesia leopardiana: il tono assiderato, desertico, ma non maligno, acido, che caratterizza il lirismo di questa prosa leopardiana è un acquisto essenziale dopo le costruzioni un po’ sonanti e corpose delle precedenti canzoni e una piú approfondita coscienza delle possibilità liriche del passo sintattico. Basta leggere il canto dei morti nel Dialogo di Ruysch e le sue mummie per capire la profondità di questa esigenza antiretorica, di scavato senso della realtà espressiva: perciò le parti piú comunemente lodate come poetiche (il Cantico del gallo silvestre, l’Elogio degli uccelli) sono in realtà risultati di momenti piú fiacchi ed obliosi.

Ma già nelle stesse Operette, alla fine, si superava idealmente la posizione amara, senza conforto, il deserto di quel periodo, affermandosi il nuovo bisogno del poeta di rasserenare il proprio mondo doloroso pur sapendolo irrimediabile e senza termine. Si comincia ad apprezzare piú calorosamente il valore del sentimento che nel mito d’amore della Storia del genere umano o dell’aspirazione all’idea nella canzone Alla sua donna, che partecipa al clima delle Operette, è sostenuto come un assurdo sacrificio, un’illusione paradossale.

Anche lo Zibaldone, che va sempre piú assottigliandosi man mano che scema l’interesse particolarmente speculativo, acquista un diverso tono: vi si parla meno dell’assuefazione o di libri filosofici e morali e piú di rimembranza, di romantico cioè vago-poetico, vi si prepara insomma il mondo idillico.

Qui l’importanza della cronologia si fa sempre piú evidente e prende a coincidere con una sicura separazione di momenti ideali. Non si può infatti non riconoscere l’adeguazione del periodo poetico dei grandi idilli.

Ad ogni modo certo è che il momento idillico è chiuso nettamente tra le pagine affettuose del Dialogo di Plotino e Porfirio e le blande domande metafisiche del Canto di un pastore errante per l’Asia. Manca ogni intrusione di motivi diversi, e l’attività speculativa accompagna fiaccamente, quasi da sembrare trascurabile, quella che adesso è la vera espressione caratterizzata dal tono della lontananza nostalgica, del passato, della rimembranza, riassommabili nella denominazione di idillio.

Il Leopardi credette, all’inizio di questo periodo, nel sentirsi nascere questo nuovo senso della vita e della poesia, ad un ritorno alla giovinezza, tanto che parlava a proposito di A Silvia di versi «fatti col cuore d’una volta», mentre in realtà si trattava di ben altra pienezza, di ben altra freschezza poetica: qui era una spontaneità equivalente a maturità e piuttosto che di ritorno al passato poteva parlarsi di nascita della coscienza del passato come valore catartico, idillico.

In questo periodo i piú tenaci bisogni filosofici, agitati e vivificati nelle Operette, sembrano assopiti, superati momentaneamente o meglio trasportati in una posizione meno assillante e impaziente in cui il presente è aggirato o contrapposto come doloroso e deprecabile al passato, alle illusioni svanite, madri di ogni felicità, in cui il proprio io smagato, incapace di vita attiva è confrontato con la natura e con gli esseri naturali che vivono senza coscienza dell’amara verità nel flusso continuo della vita quotidiana.

Quindi soluzione di ogni possibilità drammatica in canto (ciò che non era completamente riuscito al Leopardi nella Sera del dí di festa), importanza della scena, dello sfondo come motivo di armonia, ricerca del «vago», di parole sfumate, di ogni mezzo per sprofondarsi nel ricordo, nella lontananza, per evitare il presente, la realtà. E mai rilievi eccessivi, mai bruschi cambiamenti tonali, ma armonizzazioni perfette, proporzione fra centro e particolari, finali smorzati senza risonanza tempestosa.

Una forma lirica che trova la sua completa purezza nelle Ricordanze, in quell’andare e venire, certo di toccar sempre il fondo dell’espressione, in quel sicuro affidarsi alla suggestione di sensazioni passate, in quella misura perfetta della tenerezza affettiva culminante nell’evocazione di Nerina, come simbolo del passato, del sentimentalmente poetico:

Se a feste anco talvolta,

se a radunanze io movo, infra me stesso

dico: o Nerina, a radunanze, a feste

tu non ti acconci piú, tu piú non movi.

Se torna maggio e ramoscelli e suoni

van gli amanti recando alle fanciulle,

dico: Nerina mia, per te non torna

primavera giammai, non torna amore.

Ogni giorno sereno, ogni fiorita

piaggia ch’io miro, ogni goder ch’io sento,

dico: Nerina or piú non gode, i campi

l’aria non mira...

Sembra cosí che l’originalità leopardiana si sia definitivamente fissata nel mondo idillico, che quel romanticismo intravisto qua e là nei periodi precedenti ed enunciato come fondamentale per la poesia leopardiana, si sia poi fermato nella conclusione armonica dell’idillio come senso del vago, del nostalgico. L’acquisto formale è poi cosí evidente, la superiorità dei grandi idilli rispetto alle creazioni anteriori cosí spiccata, che si può credere di essere pervenuti al vertice e alla conclusione ascensionale della poesia leopardiana.

Questa opinione largamente diffusa ha fatto sí che le poesie successive venissero giudicate alla stregua del Leopardi idillico, esaminate ricercandovi il tono idillico che si faceva coincidere senz’altro con quello leopardiano in genere, e quindi necessariamente, poiché quel tono vi mancava, considerate come momenti di senilità, di decadenza.

Ma chi ci abbia seguito in questo frettoloso abbozzo di uno sviluppo dello spirito leopardiano avrà sentito che nell’idillio restava strozzato, non risolto quell’anelito continuo ad una espressione unitaria, all’unificazione delle due attività: poesia e pensiero, quell’aspirazione ad una vita intensa, straordinaria (ma non in senso esterno), quel bisogno di un assoluto vitale, che erano stati sommersi nell’onda musicale dell’idillio.

Dopo l’idillio, in cui il presente, la vita erano sfuggiti, evitati, sorgeva nel poeta il bisogno coraggioso di porsi di fronte al presente, alla vita, di affermare la propria intima personalità. Questo è il suo vero romanticismo di natura spiccatamente individualista, costruttivo, sia che neghi o affermi, mirante a rompere ogni barriera, ogni tradizione, verso una forma vigorosa, antidillica, nettamente «personale». Si sa, ogni arte è personale, ma in questo caso la parola acquista uno speciale significato: la nuova poesia leopardiana è personale in quanto esprime le convinzioni piú salde e profonde del poeta, in quanto in essa è piú visibile l’impronta di una personalità eroica, vigorosa, combattiva, che vi trova la propria eterna realizzazione. Una forma in cui la personalità del nuovo Leopardi è in primo piano, non allontanata, distaccata nel sogno o nella ricordanza, ma impetuosamente protesa alla lotta con il presente, al contrasto con ciò che la ostacola o la nega. Al centro di questa nuova poesia che va dal Pensiero dominante alla Ginestra, come aiuto a comprendere il nuovo tono, è una svolta essenziale nella vita del poeta, un suo acquisto di nuova ampiezza spirituale, una sua accresciuta virilità. Per quanto si provi ribrezzo a parlare di esterno, di avvenimento biografico in vicende di cosí alta spiritualità, considerando poi che in realtà non v’è nulla di esterno, di dato, di natura in cose che riguardano lo spirito e che è accettabile in uno studio di estetica tutto ciò che della vita d’un poeta può servire a rendere piú chiara l’interpretazione della sua arte, credo necessario, per staccare il nuovo dal vecchio Leopardi, accennare alle nuove condizioni di vita, al nuovo piano su cui si pose alla fine del periodo idillico.

Con la partenza definitiva da Recanati, che era stato come lo sfondo necessario alla poesia idillica, e con l’arrivo a Firenze si inizia il nuovo periodo: nuove amicizie, possibilità nuove di vita letteraria e la gloria che solo adesso comincia ad illuminarlo, sollevano il suo animo ad una considerazione piú immediata e combattiva del presente. Il rivelarsi dell’anima nuova suscita intorno a sé una nuova atmosfera e il Leopardi dalla coscienza di questo proprio potere trae maggiore incitamento alla affermazione del piú profondo se stesso.

È tutta una nuova tensione spirituale, una nuova richiesta di vita vera, di vita intensa che nasce quasi a contrasto con l’inazione e il sogno del periodo recanatese e in cui si apre, come necessario, essenziale, un intimo avvenimento, dovuto anch’esso piú al bisogno sentimentale del poeta che non alla pressione dei fatti esterni.

Il desiderio dell’amore è uno dei motivi fondamentali nella vita del Leopardi che si può rivedere tutta sotto questo speciale punto di vista, notando come questo desiderio si intensifichi, si purifichi parallelamente al maturarsi di tutto lo spirito leopardiano. Prima, al tempo giovanile, era stata un’aspirazione confusa che comincia a schiarirsi e concretarsi come bisogno totale e simbolico dell’anima nella canzone Alla sua donna in cui tutte le aspirazioni piú intime del poeta si fondono nella preghiera alla «cara beltà», l’amore è fatto esponente di tutti i problemi che si agitano nel suo animo, ma il tono sostanzialmente è lontano da quello del nuovo periodo: è un tono giovanile e stilizzato, di sacrificio assurdo, quasi autoironico, opposto al tono caldo, vibrante del Pensiero dominante.

Ed è da notarsi che la prima delle Operette morali indica l’amore come l’unica possibilità di vita felice, di superamento del pessimismo e dell’egoismo. Nei grandi idilli poi l’amore è respinto nel ricordo ed acquista quel carattere di vago, di nostalgico che è proprio della posizione del poeta di fronte alle figure di Silvia e Nerina.

Insomma nei periodi precedenti c’è l’aspirazione all’amore, ma non l’amore in atto, l’amore unico, l’esperienza intima e universale, colorata di fatalità, quasi nuova nascita dell’anima, come nel nuovo periodo. Un’esperienza (di tanto diverso valore da quelle superabili, rinnovabili che si trovano ad es., nella vita di un Foscolo) dopo la quale il Leopardi non può in nessun modo tornare quello di prima: «Sott’altra luce che l’usata errando»; una esperienza che lo porta ad un maggiore senso della vita, alla concreta maturità: «In fine la vita a’ suoi occhi ha un aspetto nuovo; già mutata di cosa udita in veduta per lui, e d’immaginata in reale; ed egli si sente in mezzo ad essa forse non piú felice, ma per cosí dire, piú potente di prima, cioè piú atto a far uso di sé e degli altri» dice il Leopardi nel LXXXII dei Pensieri, allargando a massima la propria rinascita.

Questa nuova tensione spirituale, questa pressione maggiore della personalità continuano per tutto il periodo dei nuovi canti e ne costituiscono l’intima unificazione: il motivo comune di tutti i nuovi canti, al di là dello spunto grezzo di contenuto, è sempre l’accento vigoroso, eroico della personalità che si afferma sia che invochi l’«angelica sembianza», sia che si rivolga alla morte, sia che disprezzi la vita, sia che separi l’ideale dal reale, l’immagine dalla donna, sia che si eriga ad esempio, detti una legge universale che importi la salvezza di tutta l’umanità. È dunque l’attuazione completa di quel romanticismo di cui abbiamo parlato a riguardo del nucleo spirituale del Leopardi.

Si potrà cosí dire che spiritualmente il nuovo Leopardi è maggiore del vecchio, piú maturo, piú virile, che praticamente bisogna parlare di una forma non migliore o peggiore, ma diversa, e che è assurdo perciò limitare la poesia del Leopardi alla sola poesia idillica.

A confermarci nella certezza che lo sviluppo spirituale leopardiano sia giunto alla sua vera maturità, alla realizzazione di un’arte diretta espressione della personalità, delle convinzioni del poeta, ci aiutano la scarsezza di prose (a parte l’epistolario che si va uniformando al nuovo tono appassionato ed eroico dei nuovi canti), di ogni sforzo culturale e direttamente speculativo estraneo ai nuovi canti: ciò vuol dire che il Leopardi (in senso ben diverso da quello che avveniva nel periodo idillico) ha unificato le sue esigenze spirituali in una espressione artistica che non permette, in linea di massima, altre espressioni parallele. Vuol dire che il Leopardi è meno disperso e che non si può piú parlare di un Leopardi filosofo accanto ad un Leopardi poeta, ma solo di un Leopardi che esprime se stesso e le sue certezze in un’unica forma originale, personale.

Tutto ci conduce cosí a parlare esplicitamente della nuova forma come dell’espressione concreta in cui unicamente si realizza la nuova forza spirituale leopardiana.

È sostanzialmente una vigoria non armonica, ma impetuosa, a slanci e contrasti, tesa, tenace, mirante piú a momenti di alta intensità che a composizioni levigate, ben circuite e proporzionate. È qualcosa di piú beethoveniano (ma il paragone è molto approssimativo e ha valore solo di indice) che bachiano: esplosione di motivi, frasi vibrate con passione di parole estreme, piuttosto che calmi ordinamenti, che lucide creazioni di linee senza interruzione, senza bruschi trapassi.

In dipendenza dall’interesse altamente individuale che elimina tutto ciò che non sia espressione della personalità del poeta, si nota un costante disprezzo della trovata, del quadretto gustato a sé e campeggiante sul resto del componimento. Il poeta cerca parole forti, energiche, non vaghe e nostalgiche come quelle degli idilli, fa un uso molto sobrio di paragoni, stesi per lo piú con una disinvoltura abile e poco coloriti, sfugge sempre piú ogni limite, l’armonizzazione di centro e sfondo e tende all’impeto che trasporta e giustifica i momenti piú fiacchi, non rari dove cala il soffio potente della personalità. Ma parlare di eloquenza, di pratico e paragonare questi canti alle prime canzoni patriottiche, come troppi hanno fatto, significa non aver compreso lo spirito centrale, l’accento fondamentale di questa forma, al quale si ricollegano e col quale si giustificano le varie particolarità formali.

È invece cosí lontano dalla retorica il Leopardi che sdegna ogni ornatus, ogni valore che non sia quello intimo dell’espressione poetica piú diretta: anzi sfiora, senza paura di prosa, ogni durezza, crea una musica essenziale, senza morbidezza sensuale, concitata, coraggiosissima.

Alla perfezione di questa forma il Leopardi arrivò compiutamente solo in cinque dei nuovi canti, nati nei momenti di maggiore intensità spirituale. Sono il Pensiero dominante, Amore e Morte, A se stesso, Aspasia, la Ginestra.

Gli altri canti pur mostrando chiaramente di mantenere i caratteri stilistici della nuova forma, cui nessuno di essi sfugge (neppure il Tramonto della luna che pare un ritorno all’idillio ed è invece solo un corollario della Ginestra con la stessa sua forma larga e slanciata, un unico paragone in cui la descrizione ha un valore semplicemente funzionale al contrario di quel che avviene ad es. nel Sabato del villaggio in cui il quadro è autonomo), mancano di vera ispirazione e suppliscono con il gusto finissimo, quel gusto che generò le magnifiche correzioni apportate nel ’35 ai canti precedenti al nuovo periodo.

I nuovi canti minori sono perciò piú che deviazioni dalla nuova linea poetica, dei tentativi falliti per poca ispirazione e vanno considerati come riecheggiamenti o come preparazione dei canti effettivamente realizzati: cosí il Consalvo è solo un compenso torbido dell’insufficiente realtà, una costruzione effimera fra novellistica e drammatica, di sfogo autobiografico impacciato dalla necessità di costruzione; le due canzoni sepolcrali sono un ripensamento pacato dopo lo sforzo dell’Aspasia, un elegantissimo corollario sulla bellezza e la caducità in cui manca la forza della diretta presenza della personalità; i Paralipomeni, la Palinodia e i Nuovi Credenti costituiscono la preparazione del mondo e del tono della Ginestra, in quanto che eliminano, assorbendoli in sé, quegli elementi piú crudamente polemici e negativi che non potevano essere accolti nella Ginestra.

Ma se in questi componimenti le nuove forme stilistiche sono sostenute fiaccamente dall’ispirazione personale e restano un po’ astratte, scarsamente poetiche, i cinque canti maggiori realizzano completamente l’ideale della nuova poesia e costituiscono un blocco di creazioni da contrapporsi agevolmente al mondo degli idilli.

Il primo di essi (il Pensiero dominante) è l’espressione dell’amore nella sua acme di purezza ideale ed ha perciò un tono teso di liturgia agli albori di una nuova religione, uno scatto adorativo che non ammette distrazioni e in cui la nuova personalità si esprime col suo massimo soggettivismo e con la massima universalità.

Questa affermazione tenace del proprio sé piú profondo (la Ichkeit dei tedeschi), che è il carattere di tutto il periodo, conduce ad intensità liriche simili a certi slanci del Paradiso («io che al divino dall’umano...») e accentra talmente in sé l’interesse di tutto il canto che rifugge completamente dal tono descrittivo, da ciò che può riattaccare al lato piú sensuale e vistoso della vita, da ogni ricerca di originalità esterna che distragga dalla pura atmosfera lirica. Anzi si può dire che tutti i concetti del canto si possono ritrovare piú o meno nella topica amorosa piú generale e che vale solo il vigore di assolutezza con cui quei luoghi comuni della tradizione amorosa platonica sono rivissuti e trasformati.

Queste qualità cosí poco retoriche, cosí religiosamente liriche si adunano fortemente soprattutto nel magnifico inizio che può esser preso come esempio della altezza poetica di questa nuova poesia:

Dolcissimo, possente

dominator di mia profonda mente.

Terribile, ma caro

dono del ciel, consorte

ai lúgubri miei giorni,

pensier che innanzi a me sí spesso torni.

Dall’inizio la linea di tutto il canto si svolge attorno all’unicità del soggetto isolato potentemente (lui, quell’uno...) e continuamente preso e ripreso sotto i due aspetti fondamentali di dolcezza e possanza, fatto trascendente e immanente all’animo del poeta cosí da produrre quel duplice, contemporaneo movimento di ascesa e discesa, di aspirazione e di possesso, di desiderio e di sicurezza che supera il solito platonismo in una tanto maggiore concretezza spirituale.

Si forma un clima eroico di presente eterno (il passato è tenuto in sordina e quasi come un brutto sogno da cui si è ascesi alla vera realtà) che è il clima costante di tutti i nuovi canti e si contrappone chiaramente a quello del mondo idillico.

Anche in Amore e Morte c’è un soggetto da adorare, come prima l’amore ed è, malgrado il suggerimento del titolo, proprio la morte e non piú l’amore che è già un passato, un superato. Proprio l’impeto verso l’amore che doveva aver aumentato immensamente la tensione di spirito del poeta, gli faceva sempre piú sentire con violenza il bisogno di uscire dalle bassezze, dalle meschinità della vita, non evitandole, sottraendovisi, ma superandole nell’assoluto della morte che diventa ormai per lui un atto di vita, il punto d’arrivo d’uno slancio d’anima, non gesto melodrammatico né voluttuoso desiderio nirvanico, ma preghiera virile, affermazione della propria personalità. Perciò questo canto acquista una vera saldezza poetica, diventa grande lirica quando il poeta non tergiversa, non esita piú ad esprimere questo suo purissimo contenuto di affermazione eroica e abbandona lo spunto iniziale del parallelo e dell’indissolubilità di amore e morte che si era svolto in un andamento un po’ da danza, quasi leggendario, fiabesco e non impegnato profondamente. Nell’ultima strofa – la invocazione diretta alla morte – il nuovo Leopardi si libera completamente dall’elegante motivo iniziale e si mostra nella vera qualità della sua poesia: un impeto lanciato irresistibilmente, un finale potentissimo che non ammette piú ondeggiamenti fra vigore ed eleganza e si risolve tutto nella espressione vibrante di una personalità che si afferma e si realizza nell’estrema certezza della morte, un periodo in cui la sintassi sembra travolta e sostituita da puri legami lirici:

Me certo troverai, qual si sia l’ora

che tu le penne al mio pregar dispieghi,

erta la fronte, armato,

e renitente al fato,

la man che flagellando si colora

del mio sangue innocente

non ricolmar di lode,

non benedir com’usa

per antica viltà l’umana gente,

ogni vana speranza onde consola

sé coi fanciulli il mondo,

ogni conforto stolto

gittar da me; null’altro in alcun tempo

sperar, se non te sola...

La pienezza spirituale che circola in questi canti anima, malgrado ogni apparenza contenutistica, anche l’A se stesso, in cui il Leopardi non si riduce affatto ad un arido nichilismo, ad una lucida cristallizzazione di cuore che raggeli e scarnifichi il suo nuovo vigore poetico, ma anzi diventa sempre piú convinto della propria personalità che sente di dover sempre piú affermare in un atteggiamento virile e combattivo. Perciò l’A se stesso non è un adagiarsi nella disperazione, una rinuncia, una evasione, ma una lotta, un’accettazione cosciente e sprezzante del presente. Solo con questo accento si può spiegare la linea di questa lirica originalissima: le brevissime frasi non sono delle gravi pause agghiacciate, ma fortissimi slanci contenuti, carichi di vigore, uniti in una linea che si è atteggiata cosí arditamente romantica, rivoluzionaria, in una linea che gode delle continue fermate, della potenza di una parola isolata, bloccata a meditare se stessa: «perí». Sembra che il poeta abbia soppresso i trapassi, abbia colto l’essenziale in una concentrazione lirica che non aveva raggiunto prima con tanta continuità.

L’Aspasia poi fu presa per una vendetta contro una delusione, ma non è questo il suo vero senso: qui, come al solito, si tratta dell’affermazione della personalità e del mondo interiore del poeta sopra ogni contingente avvenimento autobiografico, si tratta della separazione risoluta, pugnace di ideale e reale, della donna e dell’amore. Non che disconoscere la natura sublime dell’amore, la necessità intima di quella esperienza, il poeta l’afferma piú violentemente che mai, la scevera con piú vigore da qualunque questione per affermarsi sempre piú alto, superiore ad ogni illusione. In questa posizione energica di stacco fra reale ed ideale, fatta con mosse decise, con tagli netti, quasi brutali, è la forza di questo canto. Perciò anche il realismo della prima strofa – un realismo di tinte ottocentesche, moderne – serve a far risaltare il nuovo stato del poeta e vive della stessa vita vigorosa di cui vive il resto del canto, che può considerarsi come la fine del platonismo calato nella realtà, l’abbandono della donna, sentita quasi in senso wedekindiano, per salvare l’ideale d’amore che si identifica ora con la personalità del poeta: e non sono distinzioni logiche, ma contrasti violenti, non un processo ragionativo, ma un crescendo di impeti poetici:

Or questa egli non già, ma quella ancora

nei corporali amplessi inchina ed ama...

perch’io te non amai, ma quella diva

che già vita or sepolcro ha nel mio core...

quella adorai gran tempo...

Questa forma eroica si ritrova condotta alle estreme conseguenze nella Ginestra, in cui il romanticismo del Leopardi raggiunge la sua espressione piú spiegata. Fin qui il poeta aveva tenacemente opposto se stesso agli altri, si era mostrato eroico ed esemplare, ora spiega la sua posizione, si rivolge direttamente agli uomini per far trionfare la propria fede: non un ragionamento blando, freddo, ma un’affermazione calda che supera il contenuto materiale del messaggio. È una coscienza di sé e delle proprie convinzioni che si riversa in un tono apostolico, religioso, di banditore, di profeta.

Si ha da fare sempre non con un tono didascalico, ma con un tono altamente lirico anche nel senso tradizionale; il poeta parla infatti agli altri uomini, ma parla di se stesso ed a se stesso perché ha raggiunto quella profondità spirituale in cui l’io piú personale coincide con l’io piú universale. Ogni riferimento ci conduce inevitabilmente al Leopardi di cui sono espressione sia la ginestra, sia «l’uom di povero stato», come tutti gli effetti della malvagia natura si ricollegano alla Natura e al Vesuvio che ne è la piú diretta personificazione. Anche qui insomma un contrasto violento e l’erezione tenace della personalità del poeta. Perciò solito valore essenziale dei pigli, dell’impeto, disprezzo della proporzione e dell’armonizzazione e, piú in particolare, come forme stilistiche proprie della Ginestra in corrispondenza al nuovo stato evangelico, annunziatore del poeta, una larghezza che mira piú all’insieme che ai particolari, un tono di parabola che non degenera in prosa o in mancanza di responsabilità artistica, ma che è il risultato di tutta la tendenza dei nuovi canti ad una forma in cui ogni intima mossa spirituale possa essere accolta senza distinzione preconcetta di poesia e non poesia, di esprimibile logicamente ed artisticamente.

L’importante è dunque sempre ricondurre le varie osservazioni stilistiche all’accento personale. Allora si capirà che non c’è giustapposizione di motivo descrittivo e ragionativo, ma un solo movimento poetico, una sola linea aderente agli impeti della personalità del poeta, si comprenderanno i periodi lunghissimi, articolati, si giustificherà certo uso delle rime, degli avverbi, dei gerundi come destinati a pausare e precisare lo slancio delle frasi, si riconoscerà nella pienezza sinfonica del canto la natura eroica e romantica della nuova poesia.

Quando si è compresa l’anima del nuovo Leopardi ci si meraviglia come si sia parlato in proposito (se non da un punto di vista estetizzante) di senilità, di decadenza. È qui che il Leopardi coglie la misura della propria anima, nel vigore con cui afferma sé e nega tutto ciò che gli si oppone e lo limita: umanità sciocca, destino arcano, natura crudele. Senza che egli se ne renda chiara ragione teoricamente, il reale diventa ora l’illusorio e l’ideale, ciò che non ha saldezza empirica e vive nella nostra volontà morale, diventa il reale.

Questo vigore personale, questi valori positivi dello spirito leopardiano danno un senso ben diverso da quello che gli si suole attribuire, al suo pessimismo, al suo dolore: pessimismo, dolore di chi vuole sempre piú assolute certezze, non di chi nega per impotenza ad affermare. E smentiscono sostanzialmente la concezione di un Leopardi indifferente, lontano completamente dal fermento ideale del nostro risorgimento. Naturalmente è inutile voler far passare il Leopardi per un patriota nel senso piú corrente della parola, ma è meschino non sentire la sua altissima moralità come intima alla spiritualità innovatrice che dette l’impulso piú profondo al nostro risorgimento. Perciò l’italiano del risorgimento non è tanto nelle canzoni patriottiche giovanili, in cui il patriottismo è solo un pretesto, uno sbocco di sfogo, quanto proprio in quest’ultimo periodo, nel Leopardi dei Paralipomeni che, mostrandosi superiore alle azioni sia degli oppressori, sia dei rivoluzionari, perché mancanti di un vero principio ideale, pur non lasciava di sentire la bellezza di una Italia che «regina torneria una terza volta». Solo che voleva a base di questa rinascita tutta una nuova civiltà, una nuova umanità.